Una riforma per decreto
Dopo decenni di proposte e di attese, di indagini e di dibattiti parlamentari, di proposte e disegni di legge, la ‘riforma’ dei musei statali è giunta, inattesa, nell’agosto del 2014, compresa all’interno del decreto della quinta riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
Avviata nel 2013 dal ministro Massimo Bray per attuare le misure di revisione della spesa, la cosiddetta spending review, e per accorpare le competenze amministrative in materia di turismo, la riorganizzazione è stata ripresa e portata a termine dal ministro Dario Franceschini dopo il suo insediamento nel febbraio 2014. Nella presentazione fatta dal ministro a giugno 2014, la riorganizzazione è stata presentata come «l’opportunità per intervenire sull’organizzazione del Ministero e porre rimedio ad alcuni problemi che da decenni segnano l’amministrazione dei beni culturali e del turismo in Italia (…) lungo sei linee di azione: 1) una piena integrazione tra cultura e turismo; 2) la semplificazione dell’amministrazione periferica; 3) l’ammodernamento della struttura centrale; 4) la valorizzazione dei musei italiani; 5) la valorizzazione delle arti contemporanee; 6) il rilancio delle politiche di innovazione e di formazione e valorizzazione del personale MIBACT»
Per quanto concerne la «alorizzazione dei musei italiani» la riorganizzazione intendeva ovviare «unpunto dolente dell’amministrazione dei beni culturali in Italia, (…) la sotto-valutazione dei musei [statali]: privi di effettiva autonomia, essi sono tutti, salvo casi sporadici e non legati a un disegno unitario, articolazioni delle soprintendenze e dunque privi di qualifica dirigenziale». Come elementi cardine di questa ‘riforma’ venivano indicati: la creazione di un «sistema museale nazionale»; la costituzione di una nuova Direzione generale musei; il conferimento del massimo status amministrativo a venti musei di rilevante interesse nazionale, scegliendone i direttori tramite selezione pubblica; la creazione in ogni Regione di Poli museali regionali, «incaricati di promuovere gli accordi di valorizzazione previsti dal Codice e di favorire la creazione di un sistema museale tra musei statali e non statali, sia pubblici, sia privati». (Franceschini 2014)
La novità di questi propositi ha fatto passare in secondo piano la scelta di attuarli attraverso un decreto di riorganizzazione. Una scelta del tutto legittima sul piano giuridico, ma anche l’indiretto segnale che si è trattato di una scelta imposta, sul piano politico e tecnico, dall’alto e dall’esterno, suscitando, anche per questo, non poche reazioni di perplessità, quando non di aperta contrarietà sia da parte di esponenti della cultura italiana sia di alcune componenti degli stessi apparati ministeriali.
Poche le voci a favore, fra cui quella di ICOM Italia che si è espressa apprezzando e condividendo lo spirito della riorganizzazione del Ministero, soprattutto per l’ambito che più lo riguardava: quello dei musei.
La posizione di ICOM Italia
ICOM Italia, dopo essersi espressa favorevolmente «a caldo», ai primi di agosto del 2014 (ICOM Italia 2014/1), e aver inviato a settembre alcune osservazioni di merito sul decreto (ICOM Italia 2014/2), a novembre ha approfondito l’esame del decreto in un Seminario, confermando il giudizio positivo sullo ‘spirito’ della riforma e spingendosi ad affermare che le modificazioni introdotte nella normativa statale in materia di musei avevano un valore «epocale», motivando il proprio accordo per tre ragioni in particolare:
1. Per la giustificata soddisfazione di vedere finalmente accolta la definizione di museo dell’ICOM e di trovare presi a riferimento il suo Codice etico dei musei e i suoi standard internazionali.
2. Perchè il riconoscimento dello status di istituto ai musei statali segna una svolta radicale nella loro storia, coincidendo con la scelta di attribuire loro diversi gradi di autonomia gestionale e tecnico-scientifica.
3. In quanto la proposta di creare un Sistema museale nazionale ‘aperto’ abbatte una storica barriera fra i musei dello Stato, quelli degli Enti territoriali e i musei privati. (ICOM Italia 2014/3)
1. Il nuovo museo statale
La definizione di museo
La definizione di museo dell’ICOM è stata integralmente ripresa dal DM 23 dicembre 2014, con l’aggiunta finale delle parole “promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica” (art. 1). È una scelta importante da più punti di vista.
Completa in primo luogo un faticoso percorso verso il definitivo riconoscimento al museo statale italiano dello status di istituto, recepito dalla normativa solo pochi anni fa dall’art. 101 del Codice dei beni culturali, per cui il museo è diventato, al pari dell’archivio e della biblioteca, un «istituto della cultura», anche se con una definizione, non molto diversa da quella presente nel Testo unico del 1999, secondo cui il museo è “una struttura permanente che acquisisce, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio”. Le critiche a questa formulazione, che escludeva il ‘diletto’ dalle finalità e la ‘ricerca’ dalle funzioni del museo, non trovarono ascolto da parte del Ministero, se non nel 2008 con l’inserimento della parola “cataloga” dopo “acquisisce”.
Sancisce in secondo luogo l’allineamento formale del nostro Paese a una concezione del museo diffusa a livello internazionale, fondata sulla definizione proposta dall’International Council of Museums. Contenuta in un atto governativo, costituisce anche la premessa affinchè essa sia progressivamente fatta propria dall’insieme delle pubbliche amministrazioni.
Il riferimento alla definizione dell’ICOM costituisce infine la base per dotare i musei di quei requisiti minimi individuati al punto 1 del Codice etico per i musei in: uno status giuridico, in strutture, risorse finanziarie e personale. Gli stessi che costituiscono quattro dei cinque ambiti “di dotazione” del museo previsti dall’«Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei» del 2001, la cui struttura era ispirata agli standard dell’ICOM.
Finalità e funzioni dei musei statali
Le finalità generali dei musei statali sono individuate nella “tutela del patrimonio culturale e nella promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”. Espletano, ai sensi dell’art. 101, comma 3 del Codice, un servizio pubblico e il loro funzionamento è ispirato ai principi di “imparzialità, buon andamento, trasparenza, pubblicità e responsabilità di rendiconto (accountability)” (art. 2).
Svolgono, “funzioni di tutela e valorizzazione delle raccolte in loro consegna, assicurandone e promuovendone la pubblica fruizione” (art.1). Meglio sarebbe stato individuarle piuttosto in “conservazione e comunicazione delle loro collezioni”, ispirandosi all’accorpamento delle funzioni presenti nella definizione di museo dell’ICOM (ricerca, acquisizione, conservazione, esposizione, comunicazione), secondo il cosiddetto modello CC (Conservation/Communication) ripreso peraltro, con diversa terminologia, dallo stesso Atto di indirizzo che prevede tra gli ambiti “di prestazione” del museo la “cura e gestione delle collezioni” e “i servizi e rapporti con il pubblico”, con implicito riferimento al modello CC, introducendo tuttavia un terzo ambito, quello dei “rapporti con il territorio”, assente nelCodice etico per i musei, come riconoscimento della specificità della maggior parte dei musei italiani.
In questo modo invece, anche solo a livello terminologico, si rischia di confondere la funzione dei musei e quello delle soprintendenze, in contrasto con la distinzione operata dal decreto tra le funzioni assegnate agli istituti di conservazione e comunicazione del patrimonio culturale e quelle degli enti di tutela territoriale.
Il museo come istituto
L’identità del museo come istituto è data dal possesso di uno statuto, di un bilancio e di un’organizzazione. A ciascuno di questi elementi costitutivi del museo è dedicato un articolo del Decreto (artt. 2, 3, 4).
Lo statuto, da elaborare in coerenza con l’Atto di indirizzo del 2001 e con il Codice etico dei museidell’ICOM, è individuato come “il documento costitutivo del museo”: ne definisce innanzitutto lamissione, diversa da museo a museo e quindi da individuare e da trasformare in una “dichiarazione di missione” specifica per ciascuno, gli obiettivi, da interpretare forse come le funzioni, e l’organizzazione.
Il bilancio è costituito dal “documento di rendicontazione contabile che evidenzia la pianificazione e i risultati della gestione finanziaria e contabile delle risorse economiche a disposizione del museo”, indipendentemente dal fatto che il museo goda o meno di autonomia finanziaria. Redatto “secondo principi di pubblicità e trasparenza, individuando tutte le diverse voci di entrata e di spesa”, gli è attribuita anche la funzione di consentire “la valutazione dell’adeguatezza dell’assetto economico, la regolarità della gestione e la confrontabilità, anche internazionale, delle istituzioni museali”, come già previsto nell’Atto d’indirizzo.
Per quanto riguarda l’organizzazione dei musei, è definita la presenza di quattro aree funzionali, sostanzialmente simili a quelle individuate nella Carta nazionale delle professioni museali del 2005, anche se con qualche elemento di confusione.
Nell’organizzazione, oltre alla direzione, su cui torneremo, le aree sono quella della “cura e gestione delle collezioni”, in cui sono correttamente comprese le attività di studio e ricerca, ma – nella versione definitiva – anche la didattica (il che non ha alcun senso); quella dei “servizi e rapporti con il pubblico” che includono funzioni che più sensatamente sarebbe stato il caso di attribuire alla direzione (come ilfundraising, il marketing e le pubbliche relazioni); quella amministrativa per gestione delle risorse finanziarie e umane, senza peraltro citare esplicitamente le funzioni legali, e affidandole invece un’altra funzione tipicamente direzionale, quella delle relazioni pubbliche; e infine l’area tecnica, con competenza sulle strutture, gli allestimenti e la sicurezza.
Il direttore
Il direttore del museo è, secondo il DM, «il custode e l’interprete dell’identità e della missione del museo, nel rispetto degli indirizzi del Ministero” ed è “responsabile della gestione del museo nel suo complesso, nonchè dell’attuazione e dello sviluppo del suo progetto culturale e scientifico», eliminando così ogni ambiguità sulla sua funzione, al tempo stesso scientifica e amministrativa.
Il bando per la «selezione pubblica dei direttori dei musei italiani» del gennaio 2015, ha ulteriormente articolato i compiti del direttore indicando che egli “programma, indirizza, coordina e monitora tutte le attività di gestione del museo, ivi inclusa l’organizzazione di mostre ed esposizioni, nonché di studio, valorizzazione, comunicazione e promozione del patrimonio museale; cura il progetto culturale del museo, facendone un luogo vitale, inclusivo, capace di promuovere lo sviluppo della cultura; … stabilisce l’importo dei biglietti di ingresso, … gli orari di apertura del museo in modo da assicurare la più ampia fruizione, … assicura elevati standard qualitativi nella gestione e nella comunicazione, nell’innovazione didattica e tecnologica, favorendo la partecipazione attiva degli utenti e garantendo effettive esperienze di conoscenza; assicura la piena collaborazione con la Direzione generale musei, il segretario regionale, il direttore del Polo museale regionale e le Soprintendenze; assicura una stretta relazione con il territorio, anche nell’ambito delle ricerche in corso e di tutte le altre iniziative, anche al fine di incrementare la collezione museale con nuove acquisizioni, di organizzare mostre temporanee e di promuovere attività di catalogazione, studio, restauro, comunicazione, valorizzazione; autorizza il prestito dei beni culturali delle collezioni di propria competenza per mostre od esposizioni su l territorio nazionale o all’estero… autorizza, sentito il soprintendente di settore [ma perchè?], le attività di studio e di pubblicazione dei materiali esposti e/o conservati presso ii museo…» (Bando 2015).
La fine di un’eclissi
È la fine di un’‘eclissi’ durata più di un secolo, sancita dall’adozione di una legge di tutela generale agli inizi del Novecento che aveva comportato la regressione dei musei statali a “raccolte governative”, a luoghi accessibili mediante il pagamento di una tassa governativa, trasformata in tariffa poco meno di vent’anni fa. Musei-ufficio incorporati nelle Soprintendenze, privi di un direttore, di un regolamento d’organizzazione, di un proprio bilancio, di una qualsivoglia autonomia tecnico-scientifica e organizzativa. Delle «universitas rerum», delle “collezioni aperte al pubblico”, e non delle «universitas rerum et bonorum», cioè degli istituti, come ovunque nel mondo e come erano stati riconosciuti dalla legislazione nazionale sui musei non statali e dalle leggi regionali dagli anni Settanta in poi.
L’opposizione a questa situazione ha una lunga storia, a partire dagli anni Sessanta quando, nell’ambito della Commissione Franceschini, emerse l’opportunità di adottare “particolari disposizioni […] per l’organizzazione e per il funzionamento dei Musei” in un momento in cui i “musei non statali” avevano conquistato questo status con l’approvazione della L. 1080/60. Le stesse esigenze furono ribadite nel 1990 nel Documento finale della Prima conferenza nazionale dei musei, dando vita a un breve quanto intensa stagione di proposte legislative coerenti con le sue conclusioni, su iniziativa di Giuseppe Chiarante e Luigi Covatta.
Seguirono, negli anni successivi, le proposte di autonomia, limitate ai maggiori musei statali elaborate dal ministro “tecnico” Antonio Paolucci, oggetto di un ampio dibattito, ma rimaste allo stato di progetto. Ne risentirono le previsioni del D.lgs. 368/98 che prevedeva la possibilità di dotare talune soprintendenze di un’autonomia speciale e la facoltà del Ministero di costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società. Il DPR 414/2000 andò oltre, individuando un’organizzazione periferica costituita anche da “musei e altri istituti di conservazione dotati di autonomia”, all’origine della costituzione di alcune Soprintendenze speciali per i poli museali di Venezia, Firenze, Napoli, Roma (Jalla 2003)
Meriterebbe soffermarsi più a lungo sulla nascita e l’evolversi delle aspirazioni all’autonomia gestionale e scientifica dei musei statali e sulle risposte tardive e parziali che esse hanno avuto nell’ultimo mezzo secolo, se non altro per evidenziare in che misura la ‘riforma’ attuata nel 2014 soddisfi in realtà aspirazioni espresse da molti decenni non solo da parte della comunità museale e delle sue organizzazioni, ma anche dall’interno stesso del Ministero, suscitando dunque un certo stupore per le reazioni negative suscitate.
Un nuovo scenario
A emergere è soprattutto un nuovo scenario che, dalla parificazione dei musei statali allo status degli altri musei, pubblici e privati, consente loro di profittare dell’esperienza maturata negli ultimi vent’anni in ambito regionale e locale e, al tempo stesso, pone all’insieme dei musei un punto di riferimento ineludibile, sollecitando l’insieme delle pubbliche amministrazioni ad adeguarsi a un modello comune, nazionale in quanto condiviso da tutte le componenti della Repubblica.
Le regole individuate per i musei statali sono grossomodo le stesse adottate dalle Regioni impegnate nell’accreditamento dei musei sulla base dei criteri definiti dall’Atto di indirizzo del 2001 che, come si è visto, riprendeva e adattava alla situazione italiana gli standard internazionali individuati dal Codice etico dell’ICOM.
2. Quale autonomia per i musei statali?
Come ha illustrato con chiarezza su «Aedon», Lorenzo Casini, docente di diritto e consigliere giuridico del Ministro Franceschini, con la volontà di superare ‘l’anomalia italiana’ rispetto allo status giuridico dei musei statali, «la riforma ha previsto quattro ipotesi: il museo-ufficio, il museo dotato di autonomia speciale, il polo museale regionale, il museo-fondazione». (Casini 2015).
I musei-fondazione
Rispetto a questi ultimi, tre in tutto e già esistenti (il Museo Egizio di Torino, il MAXXI di Roma e il MEIS di Ferrara), il DM, pur senza indicarli nominativamente, prevede, che le sue disposizioni si applichino “in quanto compatibili, anche ai musei statali dotati di personalità giuridica, quali le fondazioni museali o i consorzi” (art.19). I loro statuti dovranno pertanto recepire le sue prescrizioni.
I musei dotati di autonomia speciale
I venti musei dotati «di autonomia speciale» (ma la lista non è chiusa), che corrispondono alla forma dei musei «ad autonomia limitata», sono istituti privi di personalità giuridica, ma dotati di propri organi cui spetta il compito di «garantire lo svolgimento della missione del museo; verificare l’economicità, l’efficienza e l’efficacia dell’attività del museo; verificare la qualità scientifica dell’offerta culturale e delle pratiche di conservazione, fruizione e valorizzazione dei beni in consegna al museo» (art 9). Sono organi di questi musei: il Direttore, scelto, come si è visto, attraverso una selezione pubblica; il Consiglio di amministrazione, curiosamente presieduto dal direttore/dirigente del museo, che dovrebbe dipenderne; il Comitato scientifico, nuovamente presieduto dal direttore che deve supportare e a cui dovrebbe formulare proposte, e aperto alla partecipazione degli enti territoriali; e infine il Collegio dei revisori dei conti.
Non sembra cioè esservi una chiara distinzione fra organi di governo e di gestione, come nel caso delle “istituzioni” previste per i servizi privi di rilevanza economica dal TUEL, quanto piuttosto un affiancamento del direttore da parte di organi amministrativi e scientifici con funzioni di supporto, ma anche di controllo sulle sue decisioni.
Se a questo si aggiunge che questi musei devono agire “in coerenza con le direttive e altri atti di indirizzo del Ministero” (art. 11) e sono sottoposti alla vigilanza della Direzione generale Musei che ne approva i bilanci e i conti consuntivi (art. 14), sembra emergere la volontà di bilanciare l’autonomia ‘speciale’ assegnata a questi istituti con un sistema di limitazioni, interne ed esterne, dei poteri del direttore, forse nel timore di un’interpretazione dell’autonomia in senso personale e autoreferenziale.
Del resto, questi venti musei restano sempre, come scrive Casini, degli “uffici ministeriali e l’autonomia non comprende (ancora) il personale: ma la strada dell’autonomia è stata intrapresa” (Casini 2015).
I musei ufficio
Esclusi i venti musei dotati di autonomia speciale, tutti gli altri musei manterranno lo status di «museo-ufficio» «non dirigenziali» e parte dei «poli museali regionali».
È questa la più rilevante novità nell’organizzazione dei musei statali per due ragioni: in primo luogo perché ogni museo sarà dotato di uno «statuto» (così definito dal DM, in applicazione al DPCM, anche si stratta di atto con valore regolamentare), di un proprio bilancio, di un’organizzazione, di una carta dei servizi e soprattutto di un direttore, tali da definirne la natura di istituto; e in secondo luogo perché anziché far parte, in modo indistinto, tanto sul piano scientifico quanto sul piano organizzativo, delle Soprintendenze, questi musei faranno ora parte dei Poli museali regionali (statali), ‘alleggerendo’ i compiti delle Soprintendenze (Casini 2015), ma soprattutto distinguendo, all’interno dell’organizzazione periferica del Ministero, gli enti preposti alla ‘protezione’ del patrimonio culturale dagli istituti dello Stato che ne assicurano la conservazione e comunicazione.
Questa separazione ha suscitato molto allarme, temendo che essa avrebbe indebolito il ruolo delle Soprintendenze e dunque dell’esercizio della tutela. Al netto dell’impoverimento degli organici dell’intero apparato statale e delle risorse sempre più scarse a disposizione, è vero il contrario: una distinzione dei ruoli, in sè, li rafforza entrambi, come provano del resto l’ambito archivistico e quello bibliotecario, entrambi storicamente caratterizzati da una differenziazione delle strutture proposte alla tutela – le soprintendenze, statali e regionali – dagli istituti di conservazione e comunicazione/consultazione dei beni affidati alla loro custodia, gli archivi e le biblioteche.
A contraddire questa tesi è anche il compito affidato ai direttori dei poli museali, i quali devono operare «in stretta connessione con gli uffici periferici del Ministero e gli enti territoriali e locali, anche al fine di incrementare la collezione museale con nuove acquisizioni, di organizzare mostre temporanee, e di promuovere attività di catalogazione, studio, restauro, comunicazione, valorizzazione» (art. 34, lettera i) del DPCM).
I musei statali tornano così a essere musei in senso pieno, con uno status non diverso da quelli degli enti locali, tenuti a osservare gli standard previsti dall’Atto di indirizzo, come tutti gli altri musei, per lo meno nelle Regioni in cui essi sono stati recepiti e posti alla base di processi di accreditamento. Cade, in altre parole, uno steccato che li aveva esclusi (sul piano formale, almeno) dalla partecipazione ai sistemi regionali e locali.
Essi tuttavia, pur individuati nella loro specificità, non agiranno indipendentemente, ma, come si è visto, in quanto parte di «poli museali regionali».
I «poli museali regionali»
Articolazioni della Direzione generale Musei, che ne nomina i direttori, i 17 poli museali regionali comprendono «gli istituti e i luoghi della cultura presenti nel territorio di competenza, ivi inclusi le aree e i parchi archeologici aperti al pubblico e/o suscettibili di essere aperti al pubblico gestiti dalle Soprintendenze Archeologia», che in una prima ipotesi non afferivano invece ai Poli (art. 15).
Ai Poli spetta il compito di elaborare «i progetti relativi alle attività e ai servizi di valorizzazione, ivi inclusi i servizi da affidare in concessione, al fine della successiva messa a gara degli stessi» (art.15) e di provvedere «a definire strategie e obiettivi comuni di valorizzazione, in rapporto all’ambito territoriale di competenza, e promuovono l’integrazione dei percorsi culturali di fruizione, nonchè dei conseguenti itinerari turistico-culturali (art. 34)» e (Casini 2015).
Del tutto diversi dai precedenti, i nuovi Poli museali costituiscono l’avamposto decentrato dello Stato cui è affidata la creazione del Sistema museale nazionale aperto alla partecipazione di tutti i musei.
Il disegno è molto ambizioso: portatori di una concezione del museo, delle sue finalità e missioni, dei suoi modi di esistere, definita dal DM, i Poli sono chiamati a realizzare l’obiettivo, tacito, ma evidente ai suoi estensori, di diffondere sul piano nazionale gli standard internazionali più avanzati, indipendentemente dall’appartenenza dei musei allo Stato, alle Regioni, agli Enti locali o dalla loro natura privata. Obiettivo sinora non raggiunto, nonostante i tentativi successivi di individuare i «livelli uniformi di qualità», previsti dal Codice del 2004, vuoi per la non applicazione degli standard in ambito statale, se non a livello di studio e ricerca, vuoi per un’applicazione da parte delle Regioni “a macchia di leopardo” e utilizzando metodi di accreditamento parzialmente diversi.
È una possibilità reale, a condizione che i Poli museali non si propongano come ‘fortini’ chiusi e sia evidente, innanzitutto alla Direzione generale Musei, che essi non agiranno in un deserto, ma in una realtà in molti casi assai più avanzata quanto ad applicazione dell’Atto di indirizzo e a concezione e visione del museo come istituto, con la forza di un «late comer» che può far tesoro dell’esperienza altrui..
Molto conterà, per questo il ruolo di guida e indirizzo della Direzione generale musei e la volontà e capacità del Ministero di stabilire accordi sul piano nazionale con la Conferenza delle Regioni, l’ANCI e l’UPI affinchè la creazione dei sistemi museali segua criteri omogenei in tutte le regioni e avvenga già nell’ambito di un’intesa nazionale sulle modalità complessive di costituzione del Sistema museale nazionale.
3. Il «sistema museale nazionale»
La creazione di un «sistema museale nazionale» dà un valore prospettico ai quattro cardini della ‘riforma’: il riconoscimento della natura di istituto dei musei e i conseguenti livelli di autonomia tecnico-scientifica attribuiti ai musei statali, l’individuazione di standard minimi cui essi devono attenersi, la creazione dei “poli museali regionali” e la nascita della Direzione generale Musei.
Sebbene limitata per ora al campo museale, questa scelta rappresenta una netta e chiara inversione di tendenza rispetto alle politiche messe in atto dallo Stato in campo patrimoniale per tutto il secolo scorso.
È l’espressione della volontà politica di superare la logica di separazione/contrapposizione fra Stato, Enti locali e, dagli Settanta del Novecento, Regioni. Propone, e ne sia dato merito al ministro Franceschini, non solo una prospettiva di cooperazione/collaborazione interistituzionale, ma un concreto progetto di integrazione.
Anche solo limitando l’analisi agli ultimi cinquant’anni, a partire dunque dagli anni Settanta del Novecento, la reazione statale alla nascita delle Regioni fu di arroccamento con la costituzione del Ministero per i beni culturali e ambientali. Nei decenni seguenti, le rivendicazioni regionali di ridistribuzione delle competenze non trovò ascolto e diede anzi luogo a una situazione di conflitto, salomonicamente risolto dalla riforma del titolo quinto della Costituzione con la separazione delle competenze di tutela e valorizzazione, attribuendo le rispettive potestà legislative l’una allo Stato in via esclusiva, l’altra alle Regioni, in modo concorrente. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 prospettava come antidoto alla debolezza intrinseca di questo modello il ricorso alla “leale collaborazione interistituzionale”, senza però trovare, per tutto il decennio successivo, attuazione alcuna, vuoi per disinteresse da parte statale, vuoi per incapacità da parte regionale (Jalla 2003).
Si è trattato di una logica e di una volontà al tempo stesso politica e burocratica, espressione di pensiero, tuttora radicato, volto ad affermare la superiorità intrinseca dello Stato rispetto agli Enti territoriali, il cui agire non ha, d’altra parte, aiutato a confutare questa visione. Al di là di vere o presunte malefatte attribuibili delle Regioni, si pensi solo alla loro incapacità di operare, fin dagli anni Settanta, in modo coordinato sul piano normativo, finanziario e tecnico, e alla conseguente disparità delle loro politiche in campo culturale.
La ‘riforma’ prospettata dal Ministro Franceschini attraverso la proposta di creare un Sistema museale nazionale ha tutte le potenzialità, anche se per ora tutte sulla carta, per superare questa situazione. Offre la possibilità di creare, su impulso dei Poli museali regionali, dei sistemi ‘misti’ su scala regionale; pone come condizione alla partecipazione a tali sistemi, il possesso di requisiti minimi comuni a tutti gli istituti, assumendo l’impegno di adeguare agli standard previsti dall’Atto d’indirizzo in primo luogo i musei statali; propone il Ministero come guida di tale processo, in modo omogeneo sul piano nazionale, su una base pattizia che non lede l’autonomia delle singole Regioni, ma le sollecita ad adeguarsi a un modello condiviso e praticato da quelle più avanzate.
Se questa è la volontà politica, non è detto che la sua attuazione avvenga senza risentire, anche molto pesantemente, da un lato dell’eredità della lunga separazione e differenza fra i corpi tecnici chiamati ad attuarla, nessuno dei quali forse preparato a cooperare a un progetto di vera e propria integrazione. Un progetto reso ancor più difficile dalla carenza di risorse economiche, dall’inadeguatezza, quantitativa e qualitativa, delle risorse umane, dall’interferenza, a tutti i livelli, di logiche politiche e di potere più abituate alla competizione che alla collaborazione.
Norme e politiche
Le norme costituiscono solo una delle componenti delle ‘politiche’: se le norme ne definiscono i limiti e gli obiettivi, la loro attuazione dipende dal contesto istituzionale ed economico, dagli apparatiincaricati di applicarle, dai mezzi (non solo economici) investiti per attuarle, dagli obiettivi che si propongono di raggiungere.
Il Sistema museale nazionale si propone «la messa in rete dei musei italiani e l’integrazione dei servizi e delle attività museali» (art. 7).
Il primo passo, tutto interno al Ministero, comporta il non facile scorporo dei musei dalle strutture di cui hanno sinora fatto parte, la redazione dei loro statuti e regolamenti, la dotazione di risorse umane, economiche e strumentali, l’individuazione di profili professionali oggi non previsti formalmente nei ruoli del Ministero, dai conservatori ai responsabili dei servizi educativi e della sicurezza.
Un’operazione non facile, da realizzare sulla base di standard e criteri comuni sul piano nazionale, ma anche con attenzione alle specificità delle situazioni e stimolando soprattutto il coinvolgimento attivo di tutto il personale. A condurlo sarà la nuova Direzione generale Musei da cui, come si è detto, dipenderà in gran parte il successo della ‘riforma’. Conterà altrettanto la professionalità degli apparati periferici, incaricati di svolgere compiti in parte nuovi e la cui attesa è anche di ricevere, in tempi rapidi, una formazione e un aggiornamento in ambiti che non fanno parte della loro formazione ed esperienza.
Il successo della riforma è anche subordinato ai mezzi che saranno investiti, perchè è difficile pensare che dall’autonomia e dal conseguente miglioramento della qualità dei servizi non emergano inizialmente maggiori costi e di conseguenza la necessità di disporre di più ingenti risorse.
Rispetto al contesto, peserà in primo luogo la capacità, innanzitutto politica, del Ministero di dare vita a un quadro istituzionale partecipato, dalle Regioni e dagli Enti locali, ma anche dei professionisti museali e delle loro organizzazioni.
La creazione di un sistema museale nazionale non può infatti prescindere dalla trasformazione delle Province in enti di secondo livello che si riflette molto negativamente sulla situazione dei musei, delle biblioteche, delle reti, degli istituti di proprietà o finanziati principalmente dalle Province. O dal fatto che agli Enti locali non sono più riconosciute le funzioni che pure esercitano ordinariamente con il conseguente rischio di una cancellazione degli stessi trasferimenti economici a loro favore (Leombroni 2014).
Per quanto il protocollo d’intesa firmato a maggio fra ANCI e MiBACT (Protocollo ANCI-MIBACT) costituisca un positivo segnale di dialogo fra Ministero ed Enti locali, i nodi da sciogliere, anche con le Regioni, sono molti, tanto sul piano istituzionale quanto economico, implicano riflessioni e interventi legislativi di carattere generale, un ripensamento e adeguamento della legislazione regionale che individui, di concerto con lo Stato, i criteri e le modalità attraverso cui attuare «l’integrazione dei servizi e delle attività museali».
Dai Poli museali regionali ai Sistemi museali regionali
Se molto dipenderà dagli accordi a livello nazionale, la vera partita si giocherà sul piano regionale.
Terminato il non facile assestamento dei Poli museali regionali (statali), bisognerà infatti dare avvio alla formazione dei ‘sistemi museali regionali e cittadini’ che costituiscono l’articolazione del Sistema museale nazionale, a cui potrà partecipare «tramite apposite convenzioni stipulate con il direttore del Polo museale regionale territorialmente competente, ogni altro museo di appartenenza pubblica o privata, ivi compresi i musei scientifici, i musei universitari e i musei demoetnoantropologici, che sia organizzato in coerenza con le disposizioni del presente capo, con ii decreto ministeriale 10 maggio 2001, recante ‘Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei’ e con il Codice etico dei musei dell’International Council of Museums (ICOM)» (art. 7).
La loro costituzione sarà «promossa e realizzata dai direttori dei poli museali regionali» sulla base di “modalità di organizzazione e funzionamento del sistema museale nazionale stabilite dal Direttore generale Musei, sentito il Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici”.
Per quanto non imminente, questa fase – ancor più delicata e complessa della prima, se non altro per la pluralità di soggetti e situazioni che coinvolge – è comunque considerata prossima e ad essa tutti gli attori in campo devono giungere preparati, sul piano politico, normativo, economico e culturale.
Puntare all’integrazione dei servizi e delle attività tra musei che hanno vissuto sin qui in buona parte indipendentemente l’uno dall’altro, con l’obiettivo non solo di migliorare la qualità dei servizi, ma di realizzare economie di scala che rendano più sostenibile la loro gestione complessiva, è un obiettivo tanto fondamentale quanto arduo.
Implica l’assunzione di una visione sussidiaria della cooperazione, la messa in opera di strumenti normativi adeguati, la disponibilità a condividere le risorse, una disponibilità al dialogo e alla reciproca comprensione, alla collaborazione e alla cooperazione tutt’altro che scontati.
Si può anche non eccepire sul fatto che la costituzione dei sistemi museali regionali sia promossa dai direttori dei Poli sulla base delle modalità stabilite dalla Direzione generale Musei del Ministero perchè questo consente di stabilire regole valide su tutto il territorio nazionale. Ma una volta promosso, il processo d’integrazione non sarà possibile se l’insieme degli attori non sarà coinvolto in modo paritario, puntando sui punti di forza di ciascuno e operando congiuntamente per ridurre i punti di debolezza, attraverso una regia comune e condivisa.
I Poli museali regionali comprendono musei statali collocati in aree diverse del territorio di competenza e quindi destinati a far parte di sistemi cittadini o sub-regionali composti in prevalenza da musei civici e privati. Sarà determinante la condivisione dei criteri attraverso cui definire i confini di questi sistemi, le loro modalità di direzione, organizzazione, funzionamento, in generale e in particolare, i servizi e le attività da integrare.
In alcune Regioni tali sistemi esistono già, sovente promossi da Province che non ne garantiscono più l’esistenza. Talora questi sistemi sono prodotto di una delega esplicita da parte delle Regioni, in altre no. Sono nate le Città metropolitane che in alcuni casi possono coincidere con sistemi cittadini, in altri no.
In una situazione così complessa e diversificata, la creazione di sistemi museali regionali, va colta come un’occasione per ridefinire ambiti territoriali omogenei, partendo dalle reti esistenti, dalle collaborazioni in essere, dalla conoscenza diretta dei contesti, delle risorse, delle dinamiche sociali e culturali.
E questo è un compito che spetta innanzitutto ai professionisti del patrimonio, da non delegare se possibile ad altri, ma da proporre coinvolgendo le amministrazioni pubbliche locali, valorizzando competenze ed esperienze acquisite sul campo confrontandosi con altri portatori di interesse, agenzie, centri di ricerca ugualmente impegnati, in questa fase alla definizione di ambiti di gestione associata, di «aree vaste».
Musei, archivi biblioteche
Se il modello proposto per i musei incarna un progetto politico, perchè non estenderlo ad archivi e biblioteche, moltiplicando per tre la sua logica?
L’ampliamento all’insieme degli istituti della cultura ne dilaterebbe gli effetti, partendo dai vertici ministeriali – le Direzioni generali Archivi, Biblioteche e Istituti culturali, Musei – che potrebbero elaborare di concerto standard comuni ai tre istituti e standard differenziati in base alle loro peculiarità, riflettere insieme –coinvolgendo anche le altre Direzioni e gli Istituti interessati – sul Catalogo del patrimonio culturale, sui profili e sulla formazione comune dei professionisti del patrimonio.
La logica del Sistema museale nazionale potrebbe essere replicata per gli archivi e le biblioteche, da cui dipendono il Sistema archivistico nazionale e il Sistema Bibliotecario nazionale che hanno tuttavia caratteristiche diverse l’uno dall’altra e non hanno lo stesso carattere organico del Sistema museale nazionale in via di formazione.
A livello regionale, anzichè assegnare “gli archivi o le biblioteche non aventi qualifica di ufficio di livello dirigenziale … a un museo dotato di autonomia speciale o a un Polo museale regionale” (art. 20), scelta criticabile e da superare, perchè non avviare la costituzione di sistemi integrati tra musei e archivi e biblioteche?
Da tempo ICOM Italia, propone da un lato il coinvolgimento dei musei nella tutela, riallacciandosi a quanto previsto dall’Ambito 8 dell’Atto di indirizzo, nella prospettiva che essi possano costituire dei “presidi attivi di tutela territoriale”, dall’altro la creazione di “sistemi integrati” su scala locale fra archivi, biblioteche e musei, nella convinzione che questa sia l’unica prospettiva realmente sostenibile nella maggior parte dei territori e anche che da essa possa scaturire un’integrazione non solo gestionale fra i tre istituti.
Le associazioni degli archivisti e dei bibliotecari – ANAI e AIB – hanno criticato la riorganizzazione del Ministero, sentendosi penalizzate dalle scelte compiute. Il Ministro Franceschini ha annunciato che, se il 2014 era stato l’anno dei musei, il 2015 sarebbe stato quello degli archivi e delle biblioteche. Sotto la sigla MAB – Musei Archivi Biblioteche – AIB, ANAI e ICOM Italia hanno proposto al Ministro Franceschini di “avviare un confronto con le Direzioni generali competenti affinchè si possano individuare modelli di sistema nazionale omogenei nei tre settori, ripensandoli in funzione di direzioni verticali per settore che assicurino omogeneità di criteri e standard di gestione degli archivi, delle biblioteche e dei musei sul piano nazionale; definendo comuni linee nel rapporto fra tutela e valorizzazione e individuando per ciascun sistema gli elementi di specificità che li caratterizzano. Questo confronto è anche volto a stabilire parametri comuni nella distribuzione delle risorse finanziarie e umane afferenti a livello nazionale e territoriale ai tre sistemi”.
Al momento in cui scriviamo, AIB, ANAI e ICOM Italia attendono una sua risposta, mentre sono impegnate a proporre questo modello su scala regionale. Un modello che nuovamente può iniziare a essere costruito dal basso, definendo insieme dimensioni e caratteristiche dei sistemi integrati, individuando le risorse necessarie a farli funzionare, le modalità de organizzazione e facendosi portatori di proposte concrete alle Regioni, alle sezioni regionali dell’ANCI e alle strutture periferiche del Ministero.
Daniele Jalla
Presidente di ICOM Italia